La Leggenda di Rinaldo

Negli anni delle invasioni barbariche una tribù di selvaggi invase il Comelico. Invano si opposero a quell’orda distruttrice, nonostante il valore del loro capo Rinaldo. Fatto prigioniero, fu costretto a scavarsi una profonda fossa nei pressi del Piave a Santo Stefano; vi fu buttato dentro, schernito e vilipeso in attesa del giudizio supremo da farsi l’indomani all’alba, troppo intenti essendo i barbari quel giorno al saccheggio del villaggio. Rinaldo, forte e generoso (per queste sue doti aveva avuto la stima dei suoi e di quanti fossero giunti in Comelico con spirito di avventura o di missione), dentro la profonda fossa, con lo spirito preparato all’ultima ora, pensò a quel buon uomo giunto in Comelico qualche tempo addietro, proclamatosi missionario di Cristo. Gli erano rimasti fortemente impressi gli episodi della Bibbia che quello raccontava, in particolare i profeti e i martiri che, tra tante corruzioni e malgrado atroci sofferenze, seppero rimanere puri e timorati del oro Dio. Trovandosi dunque in una fossa, si ricordò di Daniele, gettato in quella dei leoni dal re Dario, che mal soffriva tanta potenza spirituale in un ebreo. Rivolse a Dio il suo sfogo: “Fammi uscire di qui e ti prometto, come Daniele, la dedizione del mio popolo nel Tuo spirito”. Una voce nel suo intimo rispose: “segui la luce del sole, ma non esser mai debole di cuore”. D’improvviso si addensarono le nubi tempestose che scaricarono un’enorme quantità d’acqua sull’intera vallata. Verso l’alba il Piave era in piena e l’acqua tracimò nella fossa. Su di un tronco incastratosi dentro Rinaldo ne uscì, a stento guadagnò la costa verso nord e in un tabià trovò rifugio. Quando il sole ricomparve, ovunque stragi provocati dai barbari e dall’alluvione; fuggiti i vandali alle prime avvisaglie del nubifragio, raccolti i superstiti, Rinaldo seguì con il suo popolo “la luce del sole”. Salì l’erta prativa a nord del suo villaggio e la chiamò Costa del Saroio (da cui l’attuale paesino Costalissoio ) e proseguì entro il bosco fino alla sua sommità. Ormai era quasi tramonto ed i raggi del sole volgevano a oriente. Rinaldo si disse: “Gno vò?” (dove vò? Da cui derivò il nome attuale del monte Zovo: da Gno-vo a Zovo è facile il passaggio). Seguì collo sguardo gli ultimi raggi, sempre memore del “Segui la luce del sole” e vide, oltre il profondo avvallamento ad est del monte su cui era salito, una guglia rocciosa; all’estremità su di quella, sul ciglio di una valle ubertosa, un “dito di roccia”. Gli sembrò quello un segno ad indicargli la via da seguire. Giunse al “Dito” sul far della sera e chiamò quella guglia “Monte San Daniele” in onore del Santo (il nome del monte è tuttora San Daniele ed il suo “dito” è sempre là). L’indomani, radunati i suoi, Rinaldo decise di stabilirsi nella sottostante Val Visdende (ricca di boschi, di acque e di selvaggina) e di rimanervi finchè le orde dei barbari non fossero più entrate in Comelico lungo la Val Piave e la Val Padola. La Val Visdende si prestava benissimo anche alla difesa, circondata com’è tutto attorno da alti monti. Nella parte pianeggiante ricavarono (tagliando rettangoli di bosco) campi e prati (Pra della Fratta , Pra Marino , Costa d’Antola , Piè della Costa ) ed allevarono animali domestici. I carri venivano messi, con le slitte, in caverne e depositi nella parte sud della valle (Monte Carro ); da un’altra montagna (Monte Ferro ) ricavarono il ferro per i loro attrezzi e le loro armi; da un’altra all’estremo est, che chiamarono Per-alba – roccia bianca – trassero il marmo per la reggia e nei pressi anche del rame. Messe le sentinelle tutto attorno la valle (Col della Varda – Varda: Guarda ), in special modo sul colle che sovrasta il Passo Zovo , da dove erano entrati in Visdende (vedi l’attuale “Col della Sentinella” ), Rinaldo scelse il “luogo di adunanza del popolo” e lo chiamò come i Romani “Curia Comelicorum” (oggi rimasto “Monte Curiè ). Dati gli ordini e pregati Iddio, salirono alla sommità per guardare dall’alto i loro villaggi abbandonati odo occupati ancora da altre orde di passaggio, laggiù lungo il Piave. Sul monte allora più alto, nel centro sud della valle, i comelicesi costruirono la reggia a Rinaldo, ed in un gran masso scolpirono un “trono di pietra”. Quel monte, dal nome del loro capo, si chiamò Monte Rinaldo ; per abbellire la reggia coltivarono la fiancata a giardini di rododendri, gigli rossi e genziane e ad orti di fragole, mirtilli e lamponi (ancor oggi “Pala degli Orti ). Dall’alto del monte Rinaldo dominava non solo la sua valle, ma anche quelle limitrofe da cui potevano penetrare dei predoni. Due sole volte costoro tentarono di penetrarvi. Una prima volta dall’est, risalendo da Cima Sappada: avvertiti dall’abbaiare furioso dei cani alla testata della valle (“Col del Cane-va” ) i soldati di guardia, messi in fuga i più, ne catturarono alcuni. Li legarono due a due per la schiena e, senza far loro alcun male, li fecero ridiscendere in quel modo a Cima Sappada; quelli, per camminare, dovevano stare in posizione di seduti (in latino sessis) e da allora quella valle si chiamò “Val Sesis . La seconda scorribanda avvenne da nord, dal passo ad est del Monte dei Colombi selvatici (in latino palumbinus – oggi Palombino ) e, poiché la respinta di quei rapinatori fu opera degli stessi soldati del Col Caneva, Rinaldo regalò loro le foreste di quel monte, giudicandole “degne” delle loro imprese (oggi “Passo Dignas ” e “Valle Dignas”). Poi seguirono anni di pace e di tranquillità. Rinaldo, dall’alto della sua reggia, volgendo lo sguardo a sud, a un monte oltre il Piave (Terza Piccola ), vide brillare qualcosa: incuriosito riguardò anche la notte seguente sempre più meravigliato dagli strani luccichii. La terza notte, senza dir nulla a nessuno, scese per dirupi e per una stretta e selvaggia valle fino al Piave, lo oltrepassò e s’inerpicò sulla montagna lucente. S’avvide che quei bagliori erano pietre d’argento (sotto la Terza Piccola c’è oggigiorno una miniera d’argento). Raccolse quante più pietre poté e le nascose in una grotta della Valle del Rinaldo. E così fece per molte notti. Di giorno dormiva stanco e più non accudiva ai doveri del suo stato. I suoi sudditi cercarono di interrogarlo, ma egli taceva ed aspettava le notti di luna per ridiscendere alla miniera e riempire la caverna del suo tesoro. Finché una guardia lo vide uscire e lo seguì: scoperse il suo segreto e lo disse al popolo radunato alla Curia. In quel mentre un enorme fremito scosse la reggia ed un altro ancora, finché la cima del monte crollò con un’enorme frattura (“Monte Franza ) di spuntoni, di campanili e di massi (“Val Popera” ); il Trono di Pietra rotolò dalla parte opposta e si vede tutt’ora nell’alta Val Rinaldo . Della cima del monte rimasero “Tre dita” (che si vedono anche oggi molto bene da Piè della Costa), tre dita di roccia – le Tre dita di Dio – ad indicare la Sua bontà (nel liberare Rinaldo dalla fossa), la Sua saggezza (nell’indicargli la via: “segui la luce del sole”) e la Sua giustizia (nel punirlo: “ma non essere mai debole di cuore”) . I comelicesi così chiamarono il luogo dove egli trovò l’argento: “Cor-debole” e così si chiama ancor oggi “Cordevole.

Racconto tratto da: “L’Anello del Comelico, Itinerario Alpino Nr.18 scritto da Italo de Candido per Tamari Editore in Bologna 1974.